I numeri stanno con Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa che crescono e si coalizzano contro i vecchi padroni occidentali, prendendo di mira la moneta americana. Le caratteristiche di un’evoluzione ancora poco compresa che si potrà fronteggiare soltanto riportando al centro dell’azione politica i diritti umani e lo sviluppo sociale
di Guido Talarico
L’incontro tra Vladimir Putin e Xi Jinping, avvenuto lo scorso marzo a Mosca, e la riunione dei paesi BRICS in Sud Africa, da poco conclusasi, stanno delineando una possibile trasformazione nell’ordine finanziario ed istituzionale globale, con implicazioni significative per il predominio del dollaro e per l’egemonia che i paesi del G7 hanno fin qui mantenuto sul mondo. Questi due incontri, con le esplicite dichiarazioni che ne sono seguite, indicano chiaramente un cambiamento imminente nel panorama economico internazionale.
Proviamo a spiegare come e perché. Nel vertice tra Putin e Xi, un annuncio importante, almeno in Italia, è passato inosservato: il leader del Cremlino ha dichiarato il sostegno all’utilizzo dello yuan cinese nelle transazioni commerciali tra la Russia e i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Questo è un segnale inequivocabile che Cina e Russia stanno attivamente cercando di minare il ruolo predominante del dollaro nel sistema finanziario internazionale. Il dollaro ha a lungo dato agli Stati Uniti e ai suoi alleati un potere economico e politico senza precedenti, consentendo loro di imporre sanzioni unilaterali e di escludere alcuni paesi dalla scena economica globale.
Le relazioni tra Stati Uniti e Russia, anche dopo il crollo del muro di Berlino, tranne qualche breve periodo, sono sempre state tese o, quantomeno di reciproca diffidenza. La guerra all’Ucraina non ha fatto che peggiorare le cose. Anche in oriente le cose sono andate peggiorando, basti menzionare Taiwan e l’attivismo nel pacifico degli americani per capire che anche con Pechino le relazioni degli Stati Uniti si sono molto raffreddate. Questo scenario è sufficiente a comprendere le ragioni che hanno spinto Russia e Cina a intensificare gli sforzi per ridurre la loro dipendenza dal dollaro. E’ già dunque da molto tempo che queste due superpotenze stanno riducendo le riserve di dollari nelle loro banche centrali e stanno promuovendo l’uso dello yuan come moneta di riferimento delle transazioni commerciali internazionali.
CINA E RUSSIA CONTRO IL DOLLARO
Ma non sono solo Russia e Cina ad andare in questa direzione. Anche altre economie si stanno muovendo verso una diversificazione valutaria. Vari paesi stanno cercando alternative al sistema di pagamento internazionale Swift, dominato dal dollaro. L’Arabia Saudita, tanto per fare un esempio importante, sta valutando la possibilità di quotare il proprio petrolio in yuan, mentre l’India sta cercando di evitare il dollaro nelle transazioni con la Russia per il petrolio.
Nonostante questi movimenti verso la diversificazione, è importante sottolineare quanto il dollaro rimanga una moneta stabile e ampiamente accettata, quindi ancora leader. La sua liquidità e il suo status come valuta di riserva globale sono fattori che non possono essere facilmente sostituiti. Anche se Xi Jinping dovesse decidere di accelerare la liberalizzazione del settore finanziario cinese e promuovere lo yuan come alternativa al dollaro, ciò andrebbe contro gli attuali obiettivi interni della stessa Cina che con l’America ha forti interscambi sia in termini commerciali che di acquisto di titoli di stato.
La prima cosa che si può dunque affermare è che la trasformazione del sistema finanziario globale è in corso, ricordando però allo stesso tempo che questo è un processo complesso e costoso. Sintetizzando potremmo dunque dire che la quota di dollari nelle riserve delle banche centrali mondiali è in calo, ma il dominio della valuta americana rimane saldamente radicato. L’ascesa di nuove alternative valutarie, l’uso delle valute digitali e l’espansione dei BRICS possono influenzare il panorama finanziario, ma è improbabile che il dollaro perda completamente il suo status nel prossimo futuro.
BRICS ATTORI INFLUENTI A LIVELLO GLOBALE
A questo punto possiamo introdurre il secondo elemento di novità e cioè che il gruppo dei paesi BRICS sta emergendo come un attore sempre più influente nell’arena globale. Di questo gruppo ne parlano in tanti ma pochi sembrano avere realmente capito perché esso rappresenti realmente il più importante elemento di novità nel nuovo ordine mondiale che si sta delineando. Allora vediamo di capire meglio cosa ci sia dietro e cosa fa dei Brics i veri potenziali “game changer” del nuovo secolo.
Il gruppo BRICS è un acronimo che rappresenta una coalizione di cinque grandi economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Il termine “BRICS” è stato coniato nel 2001 dall’allora presidente di Goldman Sachs Asset Management, Jim O’Neill, per descrivere queste cinque nazioni che si prevedeva sarebbero diventate economie dominanti nel XXI secolo. I Paesi BRICS rappresentano collettivamente una parte significativa della superficie, della popolazione e della produzione economica mondiale.
Partendo dal punto di vista costitutivo, non si può non sottolineare come il gruppo Brics viva di procedure semplificate: non ha una sede, né un regolamento, né prevede attività particolarmente complesse per le nuove affiliazioni. Per questo già nel prossimo gennaio potranno entrare a farne parte Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Senza contare che paesi come l’Indonesia, la Nigeria e il Messico hanno già espresso l’intenzione di entrarvi.
E ora vediamo con l’ausilio dei numeri che impatti la nuova Brics potrà produrre sull’ordine mondiale. Per la prima volta gli Stati Uniti, e con loro gli alleati del G7, rischiano di perdere il loro vantaggio di super potenza rispetto al resto del mondo, poiché un Brics allargato avrebbe immediatamente un PIL del 30% più grande degli Stati Uniti e un tasso di crescita molto più rapido.
BRICS CONTROLLA IL 60% DEL PETROLIO
Non solo, per la prima volta i vantaggi petroliferi dell’America andrebbero in buona parte persi, poiché un Brics allargato controllerebbe il 60% delle riserve petrolifere globali. Va poi aggiunto che per la prima volta ci sarà di un gruppo di paesi seduti intorno ad un unico tavolo che saranno in grado di controllare la maggior parte dei minerali critici di cui il mondo necessita.
Sempre per la prima volta, avremmo un organismo internazionale dotato di un mandato numericamente ampio per parlare a nome dei popoli del mondo. I cinque membri principali di Brics contengono infatti già più del 40% dell’umanità e, come abbiamo detto, hanno la fila di paesi pronti ad aderire, tra quali l’Indonesia, altra nazione tra le più popolose al mondo.
Partendo dal numero dei cittadini rappresentanti, Stati Uniti e Nato, che insieme arrivano al 13% della popolazione globale, in futuro avranno certamente maggiore difficoltà ad ergersi a “garanti dell’ordine mondiale” senza preventivamente concordare interventi militari e strategie di “peace keeping” con i Brics, che rappresentano il 40% della popolazione mondiale.
E questi nuovi pesi geopolitici hanno anche altre importanti ricadute. Ad esempio, in campo economico ed istituzionale. Per la prima volta, infatti, ci sarebbe la concreta possibilità di sostituire i gruppi statunitensi e di matrice G7 che si presentano come organizzazioni internazionali, come ad esempio la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, con organizzazioni internazionali che rispecchino i nuovi equilibri. Per altro, molti oppositori della politica estera americana (soprattutto tra gli africani e soprattutto dopo l’invasione dell’Iraq e la morte del colonnello libico Muhamma Gheddafi) ricordano come gli Stati Uniti non abbiano voluto firmare o ratificare 40 accordi internazionali. E lo ricordano sottolineando come la politica estera americana, anche grazie al meccanismo delle sanzioni, ha perseguito i soli interessi di Washington.
POTENZE MILITARI E DIRITTI UMANI
Certo, rimane il tema militare. Gli Stati Uniti con la Nato rimangono in posizione di leadership assoluta. Ma anche qui i numeri, nella loro freddezza, indicano l’esistenza di una situazione di stallo. Recenti calcoli spiegano che ci vorrebbero 1.000 testate nucleari, ovvero il 5% delle riserve mondiali, per rendere il pianeta inabitabile. Un’opzione quella dell’olocausto planetario che, per così dire, da un lato non conviene a nessuno e dall’altro è alla portata di molti, anche dunque di Brics.
E allora la conclusione è che da un lato occorre rendersi meglio conto – e di corsa – di quanto sta succedendo, dei cambiamenti ineluttabili che il mondo sta affrontando. Dall’altro lato, quello più operativo, forse è saggio ricordarsi della dottrina reaganiana che metteva l’accento sulla necessità di sostenere sempre e comunque le scelte di democrazia. Negoziare da punti di forza (e qui le armi ce le hanno tutti) per dare vita ad una società migliore. Perché in fondo la vera differenza tra occidente e Brics sta proprio lì: in una società più equa ed efficace perché costruita realmente sul rispetto dei diritti umani. E’ una sfida difficile, perché gli opposti populismi già allignano con la loro carica infetta nelle istituzioni occidentali, ma è la sola che l’occidente può correre sapendo di avere in mano carte migliori delle nazioni Brics.
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