di Velia Iacovino
Nessun presidente nella storia degli Stati Uniti nel giorno stesso del suo insediamento e a pochi minuti dalla cerimonia di giuramento, aveva osato fare quello che ha fatto Joe Biden, ossia tabula rasa in tempi record dell’eredità del suo predecessore. Il nuovo inquilino della Casa Bianca, al suo debutto nello studio ovale, ha firmato una raffica di 15 ordini esecutivi e due direttive, con cui ha revocato la maggior parte dei provvedimenti cari a Donald Trump, quelli che erano stati i suoi cavalli di battaglia di uomo forte, come si riteneva, solo al comando, il fiore all’occhiello della politica sovranista, isolazionista e protezionista della sua amministrazione.
Un modo per dare un segnale immediato di cambiamento ma anche di cancellare la ferita delle barbariche scene da medioevo del 6 gennaio scorso, che hanno segnato il punto piu’ basso della democrazia americana, con i seguaci dell’ex presidente che per contestare l’esito del voto e la sconfitta del loro idolo hanno preso d’assalto il Congresso.
Nello studio ovale sono tornati i padri fondatori.
I primi passi di Biden, dunque, sono stati da rottamatore, segnati anche da una precisa scelta di alto valore simbolico degli arredi che il nuovo presidente ha voluto nella stanza dei bottoni, dove sono ricomparsi dipinti e statue, icone della storia di libertà e uguaglianza americana: i ritratti dei padri fondatori degli Stati Uniti Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, Alexander Hamilton, di George Washington e di Abramo Lincoln, del presidente del New Deal Franklin Delano Roosevelt, il busto di Martin Luther King, quello di Robert Kennedy, di Cesar Chavez, leader degli attivisti ispanici per i diritti civili, di Rosa Parks, di Eleanor Roosevelt, che contribuì a dare al mondo la Dichiarazione universale dei diritti dell’ uomo, e di un guerriero della tribu’ Apache Chiricahua.
Cancellata la commissione che doveva riscrivere la storia
Tra le decisioni del day one che il capo della amministrazione statunitense ha messo in campo in discontinuità con il suo predecessore, in diversi settori dalla sanità, agli immigrati, all’ambiente, ce n’è una passato un po’ in sordina, ma che è emblematica del livello raggiunto dal precedente esecutivo: lo scioglimento con effetto immediato della Commissione 1776 voluta da Trump lo scorso settembre per riscrivere la storia degli Stati Uniti, dello schiavismo e dei neri d’America, e per elaborare un nuovo modello didattico in chiave nazionalista e patriottica.
E il cui scopo sarebbe dovuto essere: “eliminare fake news e distorsioni narrative ed identitarie sulle origini della nazione”. Composto da 18 membri, scelti tra attivisti conservatori, politici, intellettuali di estrema destra e storici non professionisti, il think tank trumpiano aveva subito sollevato le durissime reazioni del mondo accademico e della cultura americano. Il suo primo rapporto, dal titolo Il Luther King Day, è stato pubblicato non piu’ tardi del 18 gennaio scorso a due giorni dalla fine dell’amministrazione: in tutto 41 paginette senza fonti, né citazioni e bibliografia, tese a dimostrare che negli Stati Uniti vige un sistema “di esplicito privilegio di un gruppo che, in nome della ‘giustizia sociale’” e “della politica identitaria” ha creato “classi protette di cittadini in base alla razza e ad altre categorie demografiche”. Una vergogna, come è stato bollato da più parti il documento.
La dottrina Biden
Ma se sulla scena interna una prima piazza pulita del trumpismo è stata fatta, sono molti e scottanti i dossier che riguardano le questioni internazionali che attendono Biden sul tavolo dello studio ovale: alleanze da ridefinire, relazioni da rafforzare, dialoghi da riprendere. Il neopresidente ha una lunga esperienza in politica estera, sia come senatore che come vice di Barak Obama, ruolo nel quale ha sviluppato una sua personale visione -tant’è che si parla di dottrina Biden- fondata sul multilateralismo, come unica via percorribile per fronte alle sfide global, sulla diplomazia e sull’idea del ricorso alla forza solo come opzione estrema.
Iran e l’accordo sul nucleare
In campagna elettorale Biden non è sceso nei dettagli. Ma ha annunciato di voler ridurre il numero di truppe in Medio Oriente e concludere le guerre infinite che l’affliggono, pur impegnandosi a continuare a combattere il terrorismo. Quel che è certo è che ritirerà sicuramente il sostegno americano al conflitto nello Yemen e richiamerà in patria gran parte dei soldati che si trovano ancora in Afghanistan. Ma l’attenzione del mondo si concentra su cosa farà con l’Iran, con Israele e con la Cina. Biden ha fortemente criticato in questi anni Trump per essersi ritirato dall’accordo sul nucleare con Teheran, che per altro è una sua creatura, accusandolo di aver rinunciato ad uno strumento il cui obiettivo era proprio quello di impedire all’Iran di sviluppare l’arma atomica, spingendo il regime degli ayatollah nelle braccia di Cina e Russia. Il presidente sembra intenzionato a rientrare nel trattato, rafforzandolo e deciso a mettere in campo, in collaborazione con gli alleati europei e le altre potenze coinvolte, iniziative di contenimento dell’influenza iraniana nell’area.
Amico di Israele
Per quanto riguarda Israele e la Palaestina, Biden, che ha un forte rapporto di amicizia con Benjamin Netanyhau, ha sempre sostenuto la necessità dell’esistenza di uno stato ebraico come antidoto a un nuovo Olocausto ed è favorevole alla soluzione a due stati, unica possibilità, a suo avviso, per garantire la sicurezza di Israele a lungo termine e sostenere la legittima aspirazione all’autodeterminazione dei palestinesi.
Russia e Cina e il summit delle democrazie
Infine la Russia e la Cina. Le due partite piu’ complicate. Con Pechino sarà difficile abbassare la tensione e riavviare il dialogo. Biden non sembra propenso a un ritorno delle relazioni con come erano durante l’amministrazione Obama. Lo ha già fatto capire: il gelo rimarrà. Con la Russia molti fronti restano aperti: dalle interferenze nelle elezioni, al caso Navalny, alle taglie sui soldati americani in Afghanistan, ai cyberattacchi. E su questo ha bisogno di verifiche prima di prendere decisioni. Comunque la strategia di Biden sarà sicuramente piu’ chiara, scommettono gli analisti, dopo il Global Summit for Democracy che si è impegnato a convocare entro i primi cento giorno della sua presidenza e al quale sarebbe stati invitati i membri del G-7, l’India, la Corea del Sud e l’Australia. Un primo passo, secondo alcuni osservatori, per creare una sorta alleanza delle democrazie, un nuovo schieramento che rafforzi la leadership americana nel mondo, contrastando l’avanzata di pericolosi competitor dai regimi autoritari.
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