di Guido Talarico
Cesare Romiti è un uomo che ha diviso. Nel bene e nel male, in vita come in morte. Basta leggere i primi commenti alla sua dipartita per capire quanto divisiva sia stata la sua opera. Giorgio Cremaschi, ex presidente della Fiom, l’organizzazione dei metalmeccanici della CGIL, tanto per fare un esempio, si pone un interrogativo retorico scrivendo su twitter “Ma se nell’ottobre 1980 avessimo vinto noi e non lui e Agnelli l’Italia sarebbe un paese migliore”. Giorgio Meletti, sul Fatto Quotidiano, ci tiene invece a dare un giudizio: “sarebbe ingiusto salutare un uomo di 97 anni con ipocrite parole di circostanza, senza un giudizio. E’ stato un protagonista di prima grandezza dell’irreversibile declino dell’industria italiana”. Di taglio completamente opposto la maggior parte dei commenti di quanti invece scorgono in Cesare Romiti, un capitano d’industria che ha fatto la storia industriale di questo paese. Su tutte segnaliamo il commento sul Sole 24 Ore di Paolo Bricco: “Romiti è stato uno degli archetipi della storia italiana. Per il percorso professionale, che ha avuto il suo cuore nella Fiat, la principale Impresa-Stato che l’Italia abbia avuto nel Novecento. E per il suo essersi trasformato – nella rappresentazione della vita pubblica del nostro Paese – in una personalità paradigmatica grazie alla caratura, all’intensità e alla forza del suo potere”.
Dicevamo un’esistenza divisiva. E questo ci sembra incontestabile. Cesare aveva tanti amici e altrettanti nemici. E il perché in fondo è semplice e ha a che fare con la sua indole, fatta di analisi e azione. Era un uomo fuori dal comune con una spiccata vocazione alla concretezza. Solido, tignoso e molto capace. Tracciata una strategia la eseguiva fino alla fine e o eri con lui o eri contro di lui. Anche se l’avversario si poteva chiamare Umberto ed era il fratello del proprio capo, vale a dire Gianni Agnelli. Tutti i nomignoli da duro che gli hanno affibbiato negli anni discendono da questa suo decisionismo caratterizzato dalla fedeltà. Che il capo fosse il suo mentore più importante, il patron di Mediobanca, Enrico Cuccia, o successivamente l’Avvocato Agnelli, Romiti non ha mai rinunciato al suo modo di essere. Una durezza che si manifestò dai primi anni in Fiat quando ad esempio si contrappose a Carlo De Benedetti, che fu costretto a lasciare l’azienda dopo soli 100 giorni, o dopo quando la spuntò contro Vittorio Ghidella, suo competitor interno, anche lui costretto all’uscita dalla Fiat.
Un uomo dunque divisivo, ma efficace e vincente. Da manager praticamente sempre. Vinse all’interno contro tre pesi massimi quali appunto furono Umberto, De Benedetti e Ghidella, e sul mercato contro tanti altri. Portò a termine una serie di operazioni brillanti, sia finanziarie che industriali (anche i libici nella Juventus), e anche molte acquisizioni che, nonostante fossero anni difficili, alla fine consentirono alla Fiat di salvarsi e di restare saldamente in mano Agnelli. La sua prova più difficile fu forse quella che dovette superare nel 1980. Violenze e rabbia allignavano nelle fabbriche, il terrorismo dilagava. La politica aveva perso peso e anche il sindacato aveva perduto il controllo delle proprie fila. La Fiat, dove regnava il caos, di fatto era ormai fuori mercato. Nel settembre dell’80 l’azienda è costretta a mettere 24mila dipendenti in Cassa Integrazione, poi dopo uno scontro epocale annuncia 14.469 licenziamenti. Il Pci, con Enrico Berlinguer in testa, sostiene gli operai. Lo scontro cresce di giorno in giorno. Romiti è il decisore, Romiti è il nemico. Dopo settimane di tensione poi avviene quella “Marcia del quarantamila” che ha consegnato Cesare alla storia economica italiana del ‘900. E’ il suo capolavoro. Spinti da lui e dalla sua prima linea, gente come Luigi Arisio, Carlo Callieri e di Cesare Annibaldi, Romiti fa scendere in piazza quarantamila quadri, vale a dire l’ossatura predirigenziale della Fiat, che sostengono la linea di risanamento dell’azienda. E’ un episodio che cambia il corso delle cose. L’azienda supera quel drammatico impasse e riprende la sua marcia, con Gianni Agnelli sempre Presidente, Romiti, a quel punto Ad indiscusso, e Cuccia al loro fianco. Se oggi l’impero Fiat è saldamente in mano alla FCA e alla Exor di John Elkann, nonostante i problemi e nonostante i gravi lutti subiti negli anni dalla famiglia (da Umberto a Giovannino), lo si deve anche al lavoro fatto in quegli anni da Cesare Romiti.
Dopo tante altre battaglie vinte in Fiat, Romiti lascia quindi l’azienda nel 1998 con una liquidazione che all’epoca fece scalpore: 204 miliardi di lire, più varie partecipazioni tra le quali Impregilo e Gemina, azienda quest’ultima che lo portò alla presidenza del Gruppo Rizzoli Corriere della Sera. Una serie di attività, gestite insieme ai figli, Maurizio e Piergiorgio, che non andarono bene e che gli valsero varie critiche alle quali lui, in una intervista del 2009 al Sole 24 Ore, rispose così: “Può darsi che un bravo manager non sia anche un bravo padrone. Può darsi. Ben vengano tutte le critiche. Ma io non ho mai accettato quello che i cosiddetti padroni hanno accettato in tanti anni di vita industriale del Paese. L’essere accomodanti, cosa che ha portato gente di qualità mediocre a occupare posti importanti. Ma ha anche portato il Paese nelle condizioni disperate in cui si trova ora”.
Amante della vita e delle cose belle, mantenne sempre un profilo riservato consono al suo ruolo e alle regole della casa madre. In una sola circostanza pubblica mostrò un suo lato intimo. Fu nel 2003 durante il funerale di Gianni Agnelli. Per tutta la funzione rimase in piedi. Tutti si alzavano e si sedevano seguendo i riti della messa, lui rimase fermamente in piedi come a voler rimarcare chi lui fosse stato per l’Avvocato. Dieci anni più tardi spiegò al Corriere della Sera il perché di quella scelta. “In chiesa lui faceva così. Ricordo una domenica in cui andai a trovarlo a Villar Perosa. Mi portò a messa. La moglie con i figli erano davanti. Lui era in fondo, e rimase in piedi per l’intera funzione: “Romiti, rimanga in piedi con me”. Gliene chiesi il motivo. Rispose che aveva avuto un’educazione cattolica e quello era il modo per dimostrare, se non la fede, la fedeltà. Restare in piedi al suo funerale era il mio modo di rendergli omaggio”.
Nel luglio del 1996 ad Atlanta in Georgia, durante i Gioco Olimpici del centenario, mi trovai a vedere una partita di tennis con Romiti. Giocava Andre Agassi, che poi vinse la medaglia d’oro. Romiti era un agonista, quindi un vero appassionato di sport. Mi fece varie domande su Andre e ad un certo punto mi disse: “questo se la deve sudare sempre: ha più testa che talento“. Il libro “Open” Agassi l’avrebbe scritto 13 anni dopo, nel 2009. Romiti era uno che sapeva riconoscere ed ammirava il lavoro. Quello duro.
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