Dopo un drammatico incidente sulla Cristoforo Colombo, il fotografo del Coni fa uno scatto che arriva all’anima: ferma il momento più basso, il dolore più estremo. Poi il miracolo del salvataggio, le cure e la rinascita. Le sue immagini, la sua testimonianza sono un inno alla vita, un esempio per chiunque debba ricominciare
di Guido Talarico
Ci sono almeno due cose che uniscono il fotografo di guerra al fotografo di sport: stare vicino all’azione e cogliere l’attimo. Ferdinando Mezzelani prima di svenire sull’asfalto della Cristoforo Colombo ha fatto un’ultima foto, quella in alto. Non era vicino all’azione. Lui era l’azione. La fronte madida e le mani tremanti di chi sta per perdere i sensi non gli hanno impedito di mettere a fuoco. Al centro dell’inquadratura la sua gamba fatta a pezzi e sulla coscia una cinta serrata al massimo. Una foto concettuale, potremmo dire, perché non era il corredo di una cronaca ma la spiegazione di un miracolo.
Mezzelani è un noto fotografo di sport, oggi lavora al Coni. Cannavaro con la coppa del mondo alzata è il suo capolavoro professionale. Ma è nell’abisso più profondo, come quelli che si vedono al fronte, che ha trovato lo scatto che arriva all’anima. Ferdinando, sbalzato dalla sua moto e sciupato da un mostro gommato, ha guardato la morte in faccia. L’ha vista bene ma non ha subito il fascino della trascendenza. Anzi, davanti al nemico peggiore ha risposto con la sua arma più potente, la macchina fotografica. Lo scatto a quella gamba contorta, a quel piede girato orrendamente all’indietro è la risposta all’affronto del destino. Di più: quella foto è una promessa di rinascita, è un inno alla voglia di vivere. È un vaffanculo alla malasorte.
Ferdinando lo scorso 10 luglio è finito sotto un bus di Roma Capitale, sulla strada più tremebonda della medesima. È vivo per miracolo. Anzi, non per uno ma per vari. Poteva morire sul colpo, dissanguato sulla strada o sotto i ferri di quei medici che hanno dovuto lavorare duro per salvarlo. E invece no. Il suo istinto gli ha detto che la sua vita doveva ricominciare proprio da lì, da quel giorno, in quel momento. E così ha voluto immortalare, è il caso di dirlo, la sua palingenesi. Come fa il fotografo di guerra bravo, Ferdinando ha colto l’attimo, fermando il tempo sul momento peggiore. Ha aperto il suo otturatore sulla fucilata che il destino gli ha sparato a tradimento. Il punto più basso, il momento di disperazione massima dal quale ripartire.
Le cronache narrano che dopo lo svenimento Mezzelani è stato portato al San Camillo. Era in brutte condizioni. Ma vivo. Vivo perché qualcuno gli aveva stretto la coscia con la sua cinta. Serrata al punto da salvargli la vita. Perché è stata quella cinta a fermare l’emorragia, che viceversa sarebbe stata fatale. In camera operatoria i medici che lo hanno affrontato si sono dovuti misurare con tante emergenze. La prioritaria era quella di non perderlo, poi di preservarne il più possibile la mobilità. C’era da amputare una parte della gamba. Dove tagliare? Sopra o sotto il ginocchio? Meglio sotto, certo. Ma se non avesse funzionato l’arto sarebbe andato in cancrena. Si sarebbe dovuto rioperare amputando di nuovo, questa volta sopra il ginocchio. Sarebbe stato un disastro nel disastro. I medici hanno fatto le trasfusioni, lo hanno rianimato e poi alla fine gli hanno amputato la gamba sotto il ginocchio.
È andata bene. A distanza di oltre due mesi la ferita è quasi interamente rimarginata e lo stato generale del paziente è più che soddisfacente. Dopo l’intervento, appena rianimato, Ferdinando ha ripreso il filo del suo discorso, riassunto in quella foto eroica fatta prima di svenire. È ripartito da quella immagine di un uomo sanguinante e con la gamba ritorta per gridare a se stesso e al mondo la sua voglia di vivere, la sua voglia di ricominciare e di trascinare per questa strada chiunque sia stato colpito dagli accidenti del destino. Un secondo dopo il suo pensiero è andato a chi lo ha salvato. Ferdinando non sapeva chi fosse e ha lanciato sui social un appello per trovarlo. C’è riuscito. È una donna. Non una qualunque. Il Dio dei fotografi ha voluto che quel giorno, in quel momento, per puro caso su quella strada si trovasse il Capitano dell’Esercito Francesca Antonini, ortopedico in servizio al Celio. È lei che ha tolto la cinta dai calzoni di Mezzelani e gliela ha stretta intorno alla gamba bloccando la safena. È lei, insomma, chi gli ha salvato la vita.
Poi al resto ci hanno pensato i medici del San Camillo. Da quando ha ripreso conoscenze e un minimo di forza, Ferdinando non ha fatto altro che scattare foto e rispondere a parenti, amici e fan. Ma quel che stupisce, e colpisce, questa volta non sono le foto, ma le sue parole. Lui che ha sempre parlato per immagini sente ora il dovere di dire. Parla di “gioia” e di “fortuna”, sprizza positività, per sé stesso e per chiunque sta nelle sue stesse condizioni, ad ogni parola. È un incitamento costante alla battaglia per riprendersi la vita, senza mai mollare, senza mai dimenticare la bellezza che c’è dietro ogni esistenza. Conosco Ferdinando da 30 anni, ma non lo sentivo da molto. Ho letto le sue parole e ho avvertito la voglia di scrivergli e di chiamarlo per ringraziarlo. Nella vita chiunque, prima o poi, finisce arrotato da un autobus. È in quei momenti che bisogna saper fare la giusta fotografia. Saper guardare la gamba mezza dritta e non mezza rotta. Saper inquadrare il proprio futuro nella giusta prospettiva. Lui lo ha fatto per sé stesso e anche per tutti noi. Sulla Cristoforo Colombo Ferdinando Mezzelani ha scoperto la sua America. La terra della rinascita, la terra delle nuove opportunità. La sua fotografia è un inno alla positività, è un modo di porsi che merita ammirazione e gratitudine.
Ps Mentre scrivevo Ferdinando mi ha mandato una mail dicendo che mio tramite avrebbe voluto di nuovo ringraziare tutti. Continua ad essere un vulcano in eruzione. Ecco il suo messaggio: “Ho finito le parole per ringraziare il Capitano dell’Esercito Francesca Antonini, tanti ringraziamenti ai medici del San Camillo , al Dott Alessio Gia Via ,alla Dott.ssa Sabrina Casale , al Dott Emiliano Gingolani ,alla Dott.ssa Valentina Orlandi. Al Dott Carlo Damiani dell’Ospedale San Raffaele con tutto il suo staff ,la Dott.ssa Federica Cricchi, la Dott.ssa Eleonora Pasquazi, la Dott.ssa Miriam Correra, la Dott.ssa Serena Dittoni e la Dott.ssa Tullia Sasso D’Elia. Un particolare ringraziamento anche a tutto il personale Infermieristico e fisioterapico che ho incontrato sulla mia strada”.
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